Il contenimento dello sguardo in Psicomotricità

EMANUELA CALIARI

 

9° Congresso Mondiale di Psicomotricità

“LE INTELLIGENZE DEL CORPO la psicomotricità per il benessere psichico della persona »

Verona 6 – 9 maggio 2010

Lo sguardo alle volte può farsi carne

e unire due persone più di un abbraccio.

Dacia Maraini

Se lo sguardo generasse, quante nascite!

Paul Valéry

Premessa

La presente relazione nasce dall’incontro avuto con due fratelli, un bambino di 8 anni ed una bambina di 6 anni, figli di genitori entrambi ciechi. La presa in carico in terapia psicomotoria, avvenuta in momenti diversi, mi ha portato ad approfondire l’esperienza dello sguardo fondamentale nello sviluppo psicomotorio del bambino, nel riconoscimento dell’identità e come competenza professionale specifica dello psicomotricista.

Il primo contatto è avvenuto telefonicamente con la mamma che, consigliata dalla psicoterapeuta dell’età evolutiva, in seguito a valutazione su invio della scuola, ha ritenuto che sarebbe stato utile un percorso di psicomotricità. La mamma al telefono, durante una conversazione molto lunga, mi riferisce, parlando del figlio, che “vede” che è impacciato e scoordinato, che cade spesso e si fa male, che “vede” che non riesce a controllarsi, che “vede” che è molto nervoso, insicuro e si comporta “da bullo” a scuola. La bambina è “un po’ meglio” del fratello, ma, nel corso di danza classica, la “vede più indietro” delle altre bambine a livello motorio, è molto scoordinata. Riferisce che, nell’arco di sei mesi, si è fratturata una clavicola e ha avuto un’importante distorsione della caviglia. Mi sollecita più volte a chiamare la psicoterapeuta prima di vedere i bambini.

Quando contatto l’inviante, grande è la mia sorpresa quando mi comunica che i genitori dei bambini sono entrambi ciechi. La mamma ha sempre utilizzato il verbo “vedere”, parlando in prima persona e la psicologa mi riferisce alcuni dati anamnestici, importanti per dare un senso alla situazione complessiva. La madre da ipovedente grave è diventata cieca a 23 anni, in seguito ad un intervento che sembrava risolutivo, il padre è cieco dalla nascita. La madre, dopo l’intervento, ha avuto una forte crisi depressiva, che sembra aver risolto investendo sulla formazione di una famiglia propria con tanti bambini. La coppia ha un’altra bambina più piccola di otto mesi. La famiglia è seguita dagli assistenti personali dei genitori e dai nonni paterni. E’ la madre che tiene le redini della famiglia, parla molto, spiega tutto ai figli e all’interno dell’ambiente familiare questi bambini sembra non abbiano problemi: aiutano i genitori negli spostamenti e nelle faccende domestiche, tengono in ordine le loro cose, giocano tra di loro e con la sorellina piccola. L’ambiente è molto “cognitivo”, le richieste adattive e di controllo molto elevate.

Il disagio emerge in ambiente sociale, soprattutto a livello di controllo posturale e cinestesico, dove i due bimbi sembrano senza confini, dove il senso della vista, pur perfettamente funzionante, accompagna superficialmente gesti e movimenti, che risultano goffi, impacciati, disordinati. Si rilevano ansia ed impulsività nelle esecuzioni.

Ai vari test i bambini risultano molto intelligenti, elevato il livello di performance verbale; le prestazioni scolastiche sono ottime, a fronte di un comportamento “non adeguato”. I bambini ci vedono benissimo. La bimba è stata mandata a scuola a cinque anni. Inizio con il bambino l’esame psicomotorio, nel frattempo la sorella si frattura il braccio destro, “non si sa come”, scendendo dallo scivolo al parco giochi.

Ho sentito emergere profondamente da questa situazione la richiesta, che tutti i bambini fanno all’adulto, quando debbono essere riconosciuti nelle loro competenze motorie:

“Mamma, guardami!”

Vista, visione, vedere, guardare, sguardo

La vita umana, fin dal suo sorgere, è comunicazione e interazione. Non è possibile pensare e progettare la vita umana senza la corporeità, la relazione e l’intersoggettività.

L’esperienza corporea è la base per la costruzione e lo sviluppo dell’identità individuale, familiare, sociale, istituzionale, è espressione della vita emozionale, della strutturazione dei processi cognitivi, è organizzatore della motricità funzionale, comunicativa e relazionale, è regolatrice primaria di ogni comportamento.

Il linguaggio corporeo costituisce la prima modalità di comunicazione, a disposizione del bambino fin dalla nascita. Esso è la via privilegiata di comunicazione del periodo infantile e sta alla base della successiva comunicazione verbale. E’ prevalentemente inconscio, è ricco di significati simbolici ed ha una forte dimensione emozionale ed affettiva.

E’ il linguaggio corporeo che ci permette di comprendere il desiderio, che anima il nostro agire e le nostre stesse parole e che ci permette di condividere con gli altri, i contenuti emotivi che accompagnano azioni e pensieri o che ne sono all’origine.

L’alfabeto del linguaggio corporeo è costituito da vari indicatori, che evolvono nel tempo e che vengono utilizzati con modalità diverse.

Lo sguardo, e l’azione del guardare, è d’importanza fondamentale nei comportamenti sociali, nel controllo e nell’adattamento alla realtà.

Quali organi e funzioni entrano in gioco quando si parla di sguardo?

Innanzi tutto, dobbiamo considerare l’occhio, rappresentante l’organo che esterna la funzione della vista.

Nella simbologia è considerato sempre in relazione con la luce e allo stesso tempo, secondo un’antica concezione, non è solo un organo ricettivo ma invia esso stesso “raggi di forza” ed è simbolo della capacità di espressione spirituale. Molti miti antichi e credenze religiose sono legati all’occhio. Nella psicologia del profondo, l’occhio è l’organo della luce e della coscienza, poiché permette di percepire il mondo donandogli in tal modo realtà. Sigmud Freud, nel 1930, aveva scritto: “Attraverso la breccia della retina, si potrebbe vedere profondamente nell’inconscio”.

La vista, che è considerata come il senso che dà la facoltà del vedere, la capacità visiva dell’occhio, la percezione attraverso gli occhi; la visione, considerata come il processo di percezione visiva; il vedere, che significa percepire la realtà concreta (qualcuno o qualcosa) mediante gli occhi e la vista; il guardare, azione dell’osservare, di rivolgere intenzionalmente lo sguardo per vedere.

Lo sguardo è il complesso della funzione sensoriale e di quella motoria, considerate insieme. E’ l’elemento della struttura visivo-motoria e, in coordinazione con l’attività muscolare, organizza lo spazio in cui il gesto si realizzerà.

Sembra ci siano legami molto stretti tra visione, cervello ed emotività-affettività. Lo sviluppo delle neuroscienze e della psicologia sperimentale questi ultimi trent’anni, la messa a punto di strumenti di investigazione cerebrale sempre più sofisticati e precisi, permettono poco a poco di comprendere in cosa lo sguardo è la chiave per accedere all’anima emozionale umana.

Lo sguardo non è, quindi, solo un qualcosa di fisiologico ma sottende tutta una serie di meccanismi psicologici, che spiegano la ricchezza delle acquisizioni e delle esperienze vissute attraverso di esso.

L’esperienza dello sguardo: legame primario, identità e relazione con l’altro

Il “dialogo tonico” è una delle prime modalità di relazione madre-bambino. Gli scambi tonici, vissuti a livello di tono muscolare, danno origine ad un vasto complesso di sensazioni, che fondano tutto il mondo emozionale ed affettivo primario del bambino. Da queste sensazioni propriocettive-enterocettive, interne, si forma il primo involucro contenitore del corpo, l“io corporeo”, precursore di ciò che sarà l’identità.

Fin dai primi istanti della sua vita il neonato ricerca anche lo sguardo delle persone che lo circondano: malgrado una percezione visiva veramente poco efficiente alla nascita per l’immaturità generale del sistema visivo, il neonato è capace in maniera precoce di orientare il proprio sguardo sullo sguardo altrui e questa capacità, all’inizio biologica, legata all’evoluzione della specie, potrebbe costituire il meccanismo di base della nascita delle competenze relazionali. Infatti, lo spostamento graduale dell’investimento affettivo dalle sensazioni interne a quelle esterocettive, che provengono dall’esterno, elaborate principalmente dagli organi di senso, gli permette di percepire il mondo esterno a sé. I sensi realizzano quell’apertura intenzionale al mondo circostante, alla realtà, che è sguardo rivolto alle altre cose e, soprattutto, alle altre persone.

Lo sguardo, quindi, costituisce un’informazione indispensabile nello sviluppo del bambino: il dialogo di sguardi è costitutivo dell’essere umano, animale sociale per eccellenza.

Un clima effettivo ed emozionale investe gran parte di questo scambio che, a sua volta, condiziona altre funzioni corporee. Durante tutta la nostra vita noi reagiamo immediatamente, inconsciamente, allo sguardo altrui.

Le sensazioni, le percezioni attraverso i sensi, costituiscono i fondamenti di quell’identità psicocorporea, rappresentata, nel corso dello sviluppo, da varie esperienze e dall’equilibrio armonico delle diverse dimensioni, che si influenzano reciprocamente. E’ costituita da un’integrazione progressiva e dinamica dei diversi livelli che vanno dal corpo alla mente.

La dimensione corporea è considerata come l’espressione di un modo personale di essere al mondo: il corpo diviene, allora, lo strumento di rilevazione della propria identità. La persona, pertanto, si proietta all’esterno attraverso l’organizzazione dello schema corporeo, rappresentazione mentale di se stessa ed attraverso l’immagine corporea, equivalente psicologico del vissuto esperienziale.

L’identità (quel senso di unità e continuità interiore che rimane nel tempo e nelle diverse situazioni, associato alla capacità di agire coerentemente con un sistema di valori realistico) non si realizza da sola, nel confronto tra me e me, ma è un processo aperto, è una dinamica di relazioni, ben lontana da potersi dire conclusa una volta per tutte. L’identità è qualcosa che costruisco io nel corso delle esperienze, ma è data anche da quello che le persone, in relazione con me, mi rimandano e mi riconoscono.

L’identità equilibrata è una mescolanza di identità e di alterità (diversità): solo se riconosco l’altro, posso essere me stesso. La mia identità emerge nel rapporto con l’altro. Se voglio essere un individuo, se aspiro ad affermare la mia identità, l’altro mi è indispensabile per poter riconoscere la mia identità.

“L’uomo singolo, considerato in sé stesso, non racchiude l’essenza dell’uomo in sé, né in quanto essere morale, né in quanto essere pensante. L’essenza dell’uomo è contenuta soltanto nella comunione, nell’unità dell’uomo con l’uomo: ed è tale unità che si appoggia sulla realtà della differenza tra l’io e il tu”. (Martin Buber, Principi).

In un’identità in formazione, come quella del bambino, tutte le esperienze corporee che portano all’apertura alla realtà dovrebbero essere contenute, riconosciute, valorizzate dagli adulti che entrano in relazione con lui.

Il disturbo psicomotorio

Cosa succede quando questo scambio e riconoscimento reciproco tra bambino e adulto non si realizza o è deficitario?

I disturbi psicomotori o corporei coinvolgono la motricità volontaria e, quindi, sono associati a dinamiche di tipo emozionale. Il disturbo psicomotorio nasce dalla disarmonia tra organizzazione motoria e psichica del soggetto. Un disturbo psicomotorio si associa spesso ad una sintomatologia di tipo psichico e/o comportamentale (iperattività, impulsività, difficoltà di attenzione, comportamenti aggressivi ed antisociali, etc.).

In sintesi nel disturbo psicomotorio è l’azione, all’interno della relazione, e, quindi, sotto lo sguardo dell’altro. ad essere disturbata.

Possiamo affermare che è un “ problema di sviluppo bambino-ambiente” ed il disturbo, quindi, non va considerato separatamente dalle condizioni sociali e dall’influenza del gruppo di appartenenza.

Stern ha scritto “Se lo sviluppo del bambino normale deve essere considerato come una relazione, a maggior ragione sarà un problema di relazione nel bambino disturbato”.

Ritornando al caso concreto dei bambini di cui parlo all’inizio, la cecità dei genitori ha impedito il riconoscere e il contenere le attività a distanza dei figli, il supportarle emotivamente, provocando come conseguenza, a livello motorio, una imprecisa strutturazione di confini corporei, evidenziati nell’impaccio e nella coordinazione scarsa e in una carente utilizzo del canale visivo per controllare i dati ambientali, a livello psichico una svalorizzazione dell’immagine di sé, con assunzione di atteggiamenti difensivi e oppositivi.

Il loro disturbo psicomotorio specifico si colloca a livello della coordinazione e del controllo del movimento, intesi come prodotti della qualità di interazione tra organismo, ambiente e obiettivo/compito da realizzare (Newell 1986).

La funzione di contenimento in psicomotricità

La terapia psicomotoria rappresenta un’occasione, all’interno della relazione Terapista-paziente, per ripercorrere lo sviluppo psicomotorio, integrando aspetti organizzanti e meno organizzanti a qualisiasi livello e funzione essi si esprimano, al fine di agire sull’origine neuromotoria o psichica delle difficoltà, ricostruendo le tappe in modo simbolico o reale.

Il lavoro terapeutico, in un primo momento, è centrato sui processi di base e non sui risultati.

L’obiettivo della terapia psicomotoria è quello di normalizzare attraverso la presa di coscienza ed il controllo volontario della propria azione.

Lo Psicomotricista si propone, in un setting preciso e utilizzando metodi e tecniche specifiche a mediazione corporea, di armonizzare, favorire o mantenere l’identità psicomotoria del soggetto attraverso l’azione all’interno di un contesto relazionale.

Lo psicomotricista non può entrare nel setting solo come “tecnico” ma entra, così come l’utente, con le caratteristiche della sua personalità e con il linguaggio del suo corpo.

La specificità della relazione psicomotoria si caratterizza per l’implicazione attiva, corporea e motoria dello psicomotricista. C’è, quindi, un passaggio significativo dalla relazione all’IMPLICAZIONE, all’INVESTIMENTO nel rapporto, dando vita a relazioni vere e autentiche. Per questo lo psicomotricista ha anche una responsabilità etica, dovuta al legame profondo e unico che instaura con l’utente.

I suoi interventi si collocano nell’ambito della relazione di aiuto e, quindi, per analogia, richiamano la relazione madre-bambino. Vi è in entrambe queste relazioni la stessa dimensione: il cammino verso la separazione e l’autonomia e la conseguente autodeterminazione nella vita.

Come riporta il Dott. Boscaini in alcuni articoli ”Nella relazione professionale psicomotoria si produce, attraverso l’interazione corporea, una circolarità di scambi emotivi che porta, mediante modificazioni ed aggiustamenti, ad un adattamento reciproco, base per una comprensione autentica dell’altro.

Il ruolo dello psicomotricista sta nella ripetizione della funzione materna, capace di cogliere le minime comunicazioni ed i più piccoli scambi, di arricchirli e di armonizzarli”.

Un elemento fondamentale della sua specificità consiste nella qualità e nella sua capacità di contenimento di fronte all’utente. Questa capacità di contenimento dello psicomotricista è molto vicina alla funzione di contenimento della madre, legata alla capacità di entrare in relazione con il suo bambino.

Per attivare questa capacità lo psicomotricista deve attivare alcune qualità: disponibilità e comprensione, attitudine all’ascolto, decentramento, empatia, flessibilità ed elasticità.

Il contenimento dello sguardo

La presa in carico psicomotoria del caso specifico, all’inizio, ha presentato alcune resistenze, molte opposizioni, molta verbalizzazione, molti giochi cognitivi a tavolino, molti disegni, pochi movimenti in spazio delimitato, molte telefonate con richiesta di consigli da parte della madre, che ha sempre rifiutato categoricamente qualsiasi accenno al fatto che la problematica dei bambini fosse legata alla loro condizione di genitori non vedenti. Durante i primi contatti, i primi scambi, per questi bambini è stato difficile affrontare “lo sguardo”.

Nella professione dello psicomotricista il riconoscimento dell’altro, attraverso lo sguardo, è fondamentale, All’osservazione psicomotoria lo sguardo apporta l’aspetto emozionale tipico della personalità di ciascuno: il primo incontro tra lo psicomotricista e l’altro che accetta di farsi guardare.

Il primo sguardo dello psicomotricista è determinante, rappresenta l’accoglienza e l’incontro. E’ riconoscere l’altro o negarlo.

E’ lo sguardo come contenimento e sostegno, come mediatore del dialogo, come garante di un’attenzione condivisa, come testimone delle rappresentazioni dell’agito e come promotore della verbalizzazione.

Sul piano terapeutico è un importante strumento della funzione enfatica, poiché favorisce la comunicazione intesa a sollecitare, stimolare o valorizzare.

Lo sguardo è qui stato nel contempo osservatore e materno, presente e distante.

Lo spazio dell’incontro nella stanza di psicomotricità ha rappresentato l’agire e l’abbandonarsi sotto lo sguardo dell’altro, la possibilità di strutturare la propria identità nello specchio costituito dallo psicomotricista, il guardare o l’essere guardati mentre ci si muoveva, si giocava, si disegnava.

In questa presa in carico lo sguardo ha implicato complicità e opposizione, incitamento e resistenza, ha sollecitato, stimolato, valorizzato.

Il contenimento attraverso lo sguardo delle esperienze del corpo in movimento, degli spostamenti nello spazio, delle performance motorie, ha permesso un miglioramento generalizzato delle competenze psicomotorie, un riappropriarsi del piacere dell’investimento corporeo e, conseguentemente, un atteggiamento più fiducioso e sicuro.

Per concludere, lo psicomotricista porta, innanzi tutto, un diverso sguardo sull’uomo e sul mondo. Lo psicomotricista assume e rende familiare, quotidiana la condizione umana. Comprende e accetta la soggettività di ognuno e accoglie l’altro, la sua storia e le sue difficoltà, considerandole parti integranti della nostra esistenza, quindi dell’ essere nel mondo e del mondo.

I suoi interventi sono finalizzati alla creazione di setting, di cornici in cui i potenziali individuali possano manifestarsi ed essere riconosciuti dall’altro, al di là della singola patologia, al fine di armonizzare, favorire, mantenere l’identità psicomotoria del soggetto. Gli interventi psicomotori sono indirizzati al miglioramento della qualità della vita, all’adattamento, all’autonomia e si attuano attraverso prese in carico adattate ed individualizzate. Utente come soggetto di desiderio e non come “oggetto” di cura.

Il tuo sguardo il mio sguardo, come un’eco
che va ripetendo, senza parole: più dentro,
più dentro, fino al di là del tutto, attraverso
il sangue e il midollo…

dal film “Mare dentro”

Bibliografia

Amy M.D., Construire et soigner la relation mère-enfant, Dunod, Paris, 2008

Argyle M., Il corpo e il suo linguaggio, Zanichelli, 1989

Boscaini F., I disturbi psicomotori: una rottura dell’equilibrio psicomotorio e relazionale, in ReS, n.2, 1999

Boscaini F., Gobbi G., Malsani P.G., (a cura di), Il corpo tonico-emozionale, Edizioni Res, Verona, 2001

Bowlby J., Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1989

Dolto F., L’immagine inconscia del corpo, Red Edisioni, Como, 1996

Marendaz C., Du regard à l’émotion: la vision, le cerveau, l’affectif, Le Pommier, Paris, 2009

Martins R.R., I registri del corpo, in Res n.3, dicembre 2002

Potel C., (a cura di), Psychomotricité: entre théorie et pratique, in Press Editino, Parigi, 2000

Soubiran G.B., Coste J.C., Psicomotricità e rilassamento psicosomatico, Armando Editore, , Roma, 1983

Stern D., Le prime relazioni sociali: il bambino e la madre, Armando Editore, Roma, 1979